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… a te che non conosci Capo Verde …
… a te che ci sei già stato e vorresti ritornare … … a te che hai nel cuore “il tormento di voler partire e di dover restare”… ... ricorda che la felicità non sta nel fine, ma nei mezzi.
Ku karinhu.
Manù
"Straniera a Capo Verde: la complessità di un'esperienza interculturale"
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"Straniera a Capo Verde: la complessità di un'esperienza interculturale" La realtà capoverdiana: bambini, famiglia, emigrazione.
di "Sono dieci caravelle in cerca di infinito
e sono senza vela, in cerca di infinito. Alla tempesta e al vento camminano… e navigano pianamente le isole, le figlie del nero continente…" Amilcar Cabral PRESENTAZIONE Ad essere sincera, quando pensavo all'elaborazione di questa tesi, non immaginavo di incontrare tante difficoltà a realizzare una stesura che non risultasse una semplice descrizione di aspetti geografici, storici, etnici o culturali. Non è certo mia intenzione lavorare ad una sorta di guida turistica (sicuramente utile in altri contesti, ma molto lontana dai miei obiettivi): ciò che desidero tentare è una non facile riflessione interpretativa della mia esperienza. Le difficoltà più grandi le ho riscontrate, fin dall'inizio, nella ricerca e nel reperimento di testi che parlassero della realtà capoverdiana e di tutte le sue sfumature: a parte varie 'guide' pubblicate negli ultimi anni per favorire il turismo, ho avuto l'opportunità di consultare testi risalenti agli anni settanta, relativi quindi al periodo precedente l'indipendenza (avvenuta nel 1975) o immediatamente successivo ad essa. Ho dedicato molto tempo alla consultazione di testi nella biblioteca nazionale capoverdiana e ho trovato molteplici interessanti informazioni, però tutte in lingua portoghese o inglese, per cui la comprensione e interpretazione mi sono risultate, all'inizio, alquanto faticose. D'altra parte, trovo altrettanto difficile riuscire a tradurre in parole le emozioni e i sentimenti legati a persone o situazioni, senza cadere nella descrizione retorica che a volte caratterizza un 'diario di bordo'. Tuttavia sono convinta che la difficoltà del reperimento dei testi e la fatica nell'esprimere il proprio vissuto, siano inevitabili nello sviluppo di un buon lavoro. Affinché la ricerca non risultasse troppo lunga e dispersiva, dopo una breve descrizione di Capo Verde e della sua evoluzione storica, ho deciso di concentrare l'attenzione su tre ambiti, che durante il mio entusiasmante percorso, mi hanno maggiormente coinvolta. Effettivamente il termine 'ambito' richiama alla mente qualcosa di distaccato e 'settoriale', mentre i 'protagonisti' dei capitoli centrali del mio lavoro sono stati, quasi esclusivamente, persone: i bambini degli asili dell'isola di Fogo, miei "piccoli mediatori culturali", la famiglia e le innumerevoli sfumature che la caratterizzano e gli emigranti, vero punto di forza per la crescita delle relazioni interculturali di Capo Verde con il resto del mondo.
"A Capo Verde si dimentica la propria cultura, la propria storia, la propria lingua
e si riscopre la propria umanità, l'essere piccoli uomini e piccole donne in mezzo al mare, in mezzo al mondo." A. Sobrero INTRODUZIONE Fin da quando ero bambina, ho portato nel cuore il desiderio e la curiosità di conoscere il continente africano. Come tante altre persone, ero colpita dai paesaggi, dai problemi, dai mille volti che mi entravano dentro attraverso immagini dei documentari su paesi e popoli così diversi e lontani da me, non solo fisicamente. Il mio, però, era più che un desiderio: volevo andare in mezzo a loro e vedere con i miei occhi per conoscere quelle persone, che già da subito - per colore della pelle, lingua, tradizioni, abitudini e stili di vita - mi apparivano così diverse, ma che suscitavano in me qualcosa di più di una semplice curiosità. Per parecchi anni ho cercato di 'placare' questo mio sentire impegnandomi in altre attività di volontariato qui in Italia...ma via via in me si faceva sempre più vivo il pensiero di concretizzare una volta per tutte il mio sogno. Per realizzarlo ho scelto l'arcipelago di Capo Verde, sempre parte d'Africa, ma decisamente più tranquillo, perché fortunatamente non teatro di guerriglie o rivolte interne e anche più sano, infatti, a differenza di molti altri paesi africani, non si registrano malattie tipiche di paesi tropicali, come malaria, Hiv o altro. Perché scegliere addirittura una tesi di laurea su un'esperienza che poteva rimanere esclusivamente personale? Le motivazioni sono state molteplici:
1. Innanzitutto questo mi ha - in un certo senso - "obbligata" ad un'attenta documentazione su testi e
riviste attinenti all'interculturalità, in generale e su Capo Verde nello specifico, su usi, costumi,
tradizioni, stili di vita differenti; non so se avrei affrontato ugualmente un'analisi così approfondita
e culturalmente stimolante per conto mio; o comunque, lo spirito con cui avrei vissuto l'esperienza straniera,
sarebbe stato sicuramente diverso. Certo la preparazione di questo viaggio non è stata improvvisa ed immediata, anzi: avendo chiesto di essere ospitata in una missione, ho dovuto aspettare l'approvazione dei responsabili, dopo di che, ottenuto il riscontro positivo, è iniziata per me l'organizzazione pratica vera e propria relativa a visto, permessi e vaccinazioni di rito. Molte persone, tra coloro che mi conoscono, hanno pensato ad una fuga: è normale che quando una persona decide di 'cambiare vita per un po', la prima cosa che si va a pensare è che lo faccia perché le sta stretta la quotidianità che sta vivendo e vuole provare emozioni nuove. Per me non è stato così, nel senso che il mio desiderio legato al Terzo Mondo era, ed è ancora, la voglia di conoscere un'altra cultura, altre persone, altri modi possibili di approcciarsi alla vita, altri ritmi, altri orizzonti, non soltanto fuggire da quanto ho vissuto da quando sono nata. Dal punto di vista umano, riconosco in tutto ciò una certa percentuale di egoismo: con qualsiasi persona reduce da un'esperienza di questo tipo io parli, conviene con me che è sempre di gran lunga maggiore la ricchezza che si riceve, rispetto a quanto si riesce a dare, nonostante la volontà di 'staccarsi' da tutto e da tutti per poter essere anima e corpo nel luogo scelto per vivere l'esperienza. Sono partita da Milano alla volta di Capo Verde, isola di Fogo, nell'ultimo week - end del mese di ottobre, pronta a restarci per cinque mesi, il tempo minimo per riuscire ad ambientarmi, conoscere la gente e farmi conoscere. L'impatto con la realtà capoverdiana è stato duro, soprattutto per quanto riguarda la lingua; nei mesi precedenti alla mia partenza, avevo studiato le basi del portoghese ed effettivamente con la lingua me la sarei cavata sufficientemente, non fosse che la gente parla il creolo, dialetto parlato, che varia a seconda delle isole. La gente più acculturata parla correttamente il portoghese, lingua madre, ma per il primo mese, quasi tutti avevano la tendenza a parlarmi in creolo per misurare le mie capacità, la mia disponibilità ad apprendere e capire: insomma, mi mettevano a dura prova per capire se ero lì per conoscerli o per cambiarli… Durante la mia permanenza a Fogo, sono stata ospite di una casa di sorelle francescane presso il Centro Socio Sanitario S.Francesco, nuovo grande complesso comprendente un ospedale ancora in costruzione, case per ospitare i numerosi volontari e - appunto - la casa delle sorelle francescane, tutte di origine capoverdiana e responsabili 'effettive' del buon funzionamento di tutta la struttura. Al mio arrivo, dopo un'accoglienza calorosa, tipica della gente locale, ho iniziato la mia avventura, senza aspettarmi niente di particolare; effettivamente non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare e mettere in pratica ciò che tutti coloro che partono hanno in testa: "rendermi utile". Così ho lasciato che i primi giorni scorressero da soli ed osservavo cercando di interiorizzare ogni aspetto, anche apparentemente insignificante della vita in quel mondo per me tutto nuovo. Da subito l'impatto con una realtà così differente, mi aveva colpito: ero salita su un aereo nemmeno sette ore prima, avevo lasciato una terra di brume autunnali e mi trovavo come catapultata in una natura di estate costante, con clima caldo - secco, in mezzo a persone molto diverse da me.. a partire dal colore della pelle. In quel momento, mi sono sentita per la prima volta nella mia vita straniera. E' una parola carica di significati perché porta con sé molte accezioni, specie per noi, del cosiddetto mondo occidentale: razzismo, diversità, cultura, ma anche confronto, incontro, condivisione; tutto ciò in questi mesi ha messo in crisi il mio modo di vedere le cose, di affrontare le situazioni, ma soprattutto mi ha aperto gli occhi aiutandomi ad approcciarmi alle persone che incontro nel mio cammino di formazione, personale e professionale con uno spirito diverso di apertura e desiderio di conoscenza, condivisione e confronto. Sì, perché con un po' di superficialità e spensieratezza, presa dall'entusiasmo del viaggio che stavo per intraprendere, avevo sottovalutato la portata di un altro viaggio importante da fare, quello interiore, assai più difficile e carico di incognite: uscire dai miei schemi per incontrare una cultura diversa, situazioni umane di povertà, sofferenza, difficoltà e dolore, ma anche di gioia, serenità e collaborazione E'un viaggio nel quale - a mio parere - non si può mai dire di essere giunti alla mèta perché ad ogni finestra che apriamo sul mondo, ci si presentano orizzonti nuovi e stimolanti, evoluzioni per fortuna non sempre tristi e senza speranza. E' stato un viaggio 'interiore' non semplice da elaborare: maturare la capacità di rendersi disponibili alla diversità mi ha messo nella difficile condizione di dover rivalutare i pregiudizi, gli stereotipi e le prese di posizione che la mia società e le mie esperienze di vita mi aveva fatto respirare da sempre. Posso dire così di aver subito uno "sradicamento", che per forza di cose, mette la persona in una condizione di "scontro / confronto quotidiano con aspettative, usanze , lingua del tutto diverse, al quale non ci si può sottrarre"1 . Il cambiamento non è stato improvviso: ho iniziato - non senza fatica - ad osservare comportamenti, situazioni, stili di vita diversi e mi sono trovata ad affrontare due tipi di problemi, se tali si possono definire: da una parte la difficoltà ad affrontare ed accettare valori e condizioni nuove, dall'altra, l'altrettanta difficoltà a presentarmi, ad "accordare" una 'linea' di comune e possibile convivenza, anche sulla base di una conoscenza reciproca lenta, ma costante delle proprie e rispettive ragioni storiche, sociali e personali. Dico questo perché ho sperimentato in questi mesi, in prima persona, che esiste una sorta di razzismo al contrario: io ragazza bianca, dove 'bianco' sembra suonare sempre come sinonimo di "soldi" e "ricchezza". E' proprio l'affacciarsi di culture diverse che trova le persone impreparate, prive di strumenti culturali di conoscenza, prima ancora che di disponibilità di dialogo; si manifesta così quella paura dello straniero (xenofobia), che da sola è sufficiente a generare il razzismo. Per questo motivo mi sono trovata a dovermi riconoscere straniera: l'irrompere della diversità legata alla lingua, alla cultura, alla religione, ai comportamenti, nella quotidianità della vita, porta inevitabilmente la persona a sentire quasi una minaccia alla propria identità. Ben presto però si arriva alla consapevolezza che l'altro, il diverso, è tutt'altro che una minaccia: egli diventa colui che mi permette di capire chi sono e riesce a rafforzare la mia identità proprio mentre la contesta. L'altro si trasforma così da "potenziale nemico" a interprete, attraverso il quale una persona impara a riconoscere l'alterità e diventa capace di incontrare e di comunicare con persone provenienti da altri mondi, appartenenti ad altre culture, con altre esperienze, accettate quindi e vissute non come minaccia al proprio mondo, ma come autentica ricchezza umana e culturale. In questo modo si inizia a dimenticare la paura e si impara il rispetto verso persone di cui non sappiamo nulla, ma che ci pongono importanti interrogativi, anche solo con le loro scelte e i loro stili di vita. E non è solo una questione di tolleranza, nel senso che mi veniva concesso di comportarmi come credevo fintanto che non invadevo spazi che non erano di mia competenza: la diversità riscontrata nella convivenza multiculturale va condivisa e vissuta in tutte le sue sfumature, anche se molto spesso queste si rivelano enigmatici misteri. Il rispetto dell'altro non è quindi semplicemente una regola di buona educazione, ma possiede un'origine più profonda : il riconoscere che l'altro in quanto tale, possiede in sé un'immagine, una bellezza e dei valori morali diversi da quelli che conosciamo. Riconoscere che l'altro è un valore per me. Tutto questo percorso di crescita personale e umana, mi ha permesso di sviluppare, in questi mesi di permanenza in terra africana, una visione dinamica e aperta della realtà del mondo e il desiderio di riuscire a lasciarmi poco per volta alle spalle quel bagaglio difensivo, carico di pregiudizi e paure, tipico della tradizione occidentale.
“Mai più schiavitù dell’uomo
nei confronti dell’uomo. Mai più forme di violenza, che minano la dignità delle persone. No alle discriminazioni di ogni genere.” Papa Giovanni Paolo II LA REALTA’ CAPOVERDIANA Pur non volendo procedere in una stesura di tipo descrittivo, ritengo però opportuno partire dalla presentazione di alcuni aspetti relativi alla realtà dell’arcipelago: immagini indispensabili, a mio avviso, per tracciare un quadro generale che a grandi linee permetta di ‘inquadrare’ Capo Verde nelle sue caratteristiche principali. “Ogni società è sempre influenzata dalla presenza e dai contatti con altre culture, che possono essere accettati, rifiutati, selezionati sulla base delle proprie premesse culturali. Una cultura non si può comprendere fuori della storia – quella propria e quella della sua relazione con le altre culture”2 . Partendo da questa affermazione, reputo necessario fare alcuni cenni relativi alla storia, che rappresenta, come per qualsiasi popolazione mondiale, una sorta di ‘biglietto da visita’, in quanto bagaglio caratterizzante del percorso di sviluppo del popolo capoverdiano. Costituito da 10 isole, prodotte dal frantumarsi della costa africana all’epoca della formazione delle zolle continentali, il paesaggio di Capo Verde mi si è presentato, fin dal primo impatto, di un colore giallo luminoso, caldo, accogliente. Situato tra il Tropico del Cancro e l’Equatore, l’arcipelago è costituito da 9 isole, che ho visitato durante la mia permanenza (ad eccezione di Sao Nicolau e Maio) e da 8 isolotti disabitati, sparsi nell’Atlantico a formare un’immaginaria figura geometrica, con il vertice rivolto verso il Senegal. Mentre Brava, Fogo, Santiago e Maio, facevano e fanno tutt’oggi parte del gruppo di Sotavento, le isole di Boa Vista, Sal, Sao Nicolau, Sao Vicente e Santo Antao, vennero denominate dai marinai “Isole di Barlavento”3. Perché per prime sono raggiunte dall’aliseo, vento secco proveniente da nord – est che spira in maniera costante più o meno nove mesi all’anno, che ho potuto percepire personalmente non appena scesa dall’aereo, nell’aeroporto dell’isola di Sal e durante la mia visita a Sao Vicente. Nonostante siano accomunate dalla stessa origine vulcanica, le isole mi sono apparse molto diverse tra loro: quelle occidentali caratterizzate da montagne alte oltre mille metri e da picchi vulcanici attualmente inattivi (l’ultima eruzione avvenne, nel 1995, per opera del vulcano più alto, il Pico de Fogo, 2829 mt, la cui “scalata” è stata faticosa ed emozionante, ma assolutamente non paragonabile a qualsiasi altra escursione io abbia mai compiuto, nonostante sia un’amante della montagna), alternati a grandi vallate verdi, spiagge bianche o nere o profonde insenature di roccia; le isole orientali (Sal, Boavista e Maio), dove l’azione erosiva e il tempo geologico hanno creato vaste pianure contrastate da piccole dune, essendo più vicine alla costa africana, mi hanno colpita invece per le loro spiagge chiare, che si allungano a perdita d’occhio, influenzate dai venti caldi e secchi provenienti dal deserto del Sahara. Anche se è situato in una posizione apparentemente ideale, nei mesi durante i quali ho soggiornato nell’arcipelago di Capo Verde, ho sperimentato che non gode di un clima favorevole; infatti il paesaggio mi ha subito richiamato alla memoria certe immagini di documentari sulle zone africane del Sahel, il cui panorama è reso particolare e caratteristico dalla siccità e dalla carenza d’acqua. Essendo poi tornata a Capo Verde per due settimane anche nel mese di agosto, ho sentito la differenza di clima che già avevo trovato descritta in vari testi, infatti si possono distinguere una stagione più secca (novembre – luglio) dominata dall’aliseo, e un periodo umido (agosto – ottobre), nel quale le piogge – quando ci sono – scendono sotto forma di precipitazioni brevi e a volte più devastanti che efficaci. Nei mesi di dicembre e gennaio, inoltre, proprio nell’isola di Fogo, ho potuto appurare la presenza di nuvole di sabbia che coprono il cielo (la cosiddetta “bruma seca”, simile alla nostra foschia) e che sono ben diverse dalle fitte nebbie che vedevo ricoprire l’isola di Brava, e come questa, anche le montagne rocciose delle isole di Santo Antao, Sao Nicolau e Santiago. “Proseguendo la sua rotta, Cristoforo Colombo giunse alle isole del Capo Verde, le quali hanno falso nome, perché mai vide alcunché di verde, sono tutte secche e sterili”4 : chi ha assegnato il nome ‘Capo Verde’ all’arcipelago, credo l’abbia fatto riferendosi alla punta di fronte che si protende in mare a nord di Dakar, ma nonostante il territorio sembri quindi smentire il proprio nome, presentandosi arido, spoglio, asciutto, in certe isole, per esempio, Santo Antao e Brava, tra febbraio e marzo ho visto con i miei occhi una natura dall’aspetto dirompente. Ed è in questo universo insulare – saheliano, colpito nel corso degli anni da lunghe crisi di siccità, aventi come conseguenze gravi carestie5 , che Capo Verde ha così posto le sue origini e le basi della sua storia. E’ possibile che i primi a scoprire l’arcipelago siano stati gli africani, ma non ci sono prove certe della loro presenza; la conoscenza “storica” delle isole risale al tempo delle scoperte portoghesi e anche se il nome certo di colui al quale si deve effettivamente la scoperta, non è dato per certo, poco importa visto che tutti gli avventurieri e i marinai erano al servizio della corona portoghese. E’ molto probabile che al tempo delle antiche civiltà mediterranee, arcipelago venisse visitato da Cartaginesi e Fenici, mentre è sicuro che nell’XI secolo d.C. fu periodicamente frequentato dagli Arabi che da quelle terre prendevano il sale, preziosa merce di scambi con l’oro del Medio Oriente. Ufficialmente però, la storia di Capo Verde inizia soltanto il 1° maggio 1460, con la scoperta - da parte di Diogo Gomes e Antonio da Noli – delle isole di Maio, Santiago e Fogo, mentre il resto dell’arcipelago venne individuato solo nelle spedizioni degli anni successivi. Le terre, nonostante fossero molto aride e ancora disabitate, vennero ben presto avviate all’agricoltura dai coloni portoghesi, con il diritto concesso dal re Alfonso V, nel 1466, di procacciarsi manodopera gratuita nella vicina terra africana, segnarono l’inizio di un lungo periodo di schiavitù per le popolazioni delle vicine coste africane: i lavori venivano affidati agli schiavi, mentre i prodotti erano destinati alla madre patria portoghese. Non furono però i frutti della terra a rendere floride le terre capoverdiane, ma la loro posizione geografica, infatti divennero presto scalo per le navi nel commercio triangolare che vedeva protagonisti Portogallo, Africa e le Americhe, le cui colonie richiedevano sempre più schiavi. Mascherata dalla più raffinata espressione di ‘commercio triangolare’, la tratta degli schiavi mantenne vivi i mercati dell’arcipelago: proprio grazie a questo tipo di commercio, i coloni bianchi, nonostante carestie e siccità, riuscirono a fondare delle proprietà terriere, attuando le prime organizzazioni di lavoro pianificato, l’evoluzione di alcune monocolture e la razionalizzazione dei tempi di produzione. La schiavitù venne abolita ufficialmente nel 1875, ma lasciò nel cuore dei neri un sentimento forte di risentimento verso l’uomo bianco. Capo Verde si avviò verso una fase di generale declino. Dopo quasi un secolo di silenzio (a cavallo tra il 1800 e il 1900), nel quale sopravvisse con miseri raccolti nell’alternarsi di lunghi e duri periodi di siccità, l’arcipelago di Capo Verde, che il Portogallo considerava ormai poco interessante come interlocutore commerciale per le sue scarse risorse naturali, divenne terra di emigrazione. E mentre quest’ultima diventava l’unica strada ancora possibile per evitare la miseria e tentare l’inizio di una vita migliore, nell’arcipelago iniziò a svilupparsi una silenziosa lotta “culturale”: le riflessioni raccolte nella rivista “Claridade”, fondata da alcuni intellettuali facenti parte dell’omonimo movimento letterario e culturale, risvegliarono gli interessi politici, gettando le basi di una coscienza nazionale che si sarebbe presto ribellata al dominio portoghese. Così, guidata dall’intellettuale Amilcar Cabral, ancora oggi considerato “eroe nazionale”, fondatore del “Partido Africano da Indipendencia da Guiné Cabo Verde”, insieme ad alcuni seguaci, tra cui Pedro Pires, attuale Presidente della Repubblica, ebbe inizio la lotta per l’indipendenza, raggiunta e dichiarata il 5 luglio 1975, a due anni dall’uccisione dello stesso Cabral. In seguito venne costituito un governo di transizione e instaurato un regime marxista a partito unico sotto la guida di Aristide Pereira, anch’egli fedele seguace di Cabral6.
“Il bimbo è il simbolo e il sacramento
per eccellenza della libertà personale. Egli è la volontà nuova e libera a cui si aggiungono i voleri del mondo." G. K. Chesterton BAMBINI CAPOVERDIANI: I MIEI PICCOLI MEDIATORI E’ chiaro che per scoprire l’arcipelago e la sua gente, con tutte le sfumature che la caratterizzano, non penso possa bastare un soggiorno di pochi mesi o la lettura di qualche testo. Ma questi sono gli strumenti che ho avuto a disposizione ed ora cercherò di ‘mettere a frutto’ ciò che ho visto, scoperto, conosciuto, vissuto ed infine interiorizzato e fatto mio. L’ambito nel quale da subito mi sono ritrovata a dover mettere in gioco la mia persona, è stato anche quello nel quale avrei trascorso la maggior parte del mio tempo: la scuola materna (jardin infantil). Ancora in Italia, prima della mia partenza, padre Ottavio Fasano, cappuccino missionario in Capo Verde da molti anni, mi aveva spiegato che l’arcipelago possiede moltissimi asili, alcuni comunali e altri “privati”, ossia nati e sostenuti dalle missioni dei frati italiani, soprattutto attraverso le ‘adozioni a distanza’ (che da anni garantiscono un sostegno economico fondamentale). Proprio nei nove asili “privati” dell’isola di Fogo (dove ho vissuto), durante tutto il periodo della mia permanenza, mi è stata concessa l’opportunità di collaborare con le maestre nelle attività e nei laboratori quotidiani, partecipando agli incontri di programmazione con le insegnanti e alle assemblee con i genitori dei bambini ed ho così iniziato a conoscere la realtà locale attraverso questa esperienza. Con alcune insegnanti sono riuscita ad instaurare quasi da subito un buon rapporto, facilitato anche dalla giovane età della maggior parte di loro e, grazie a loro, ho avuto occasione di riflettere sulla concezione dell’amicizia, ripensando al modo in cui fino ad ora l’ho vissuta. Ho sempre preferito definire l’amicizia un legame piuttosto che un sentimento, proprio perché i sentimenti, con il passare del tempo o per cause esterne alle persone, possono mutare, mentre i legami sono come dei vincoli indissolubili, che nemmeno il tempo riesce a cancellare: credo sia impossibile dimenticare una persona con cui si è condiviso qualcosa di importante per la propria crescita, personale o professionale. In seguito all’esperienza vissuta in terra africana, mi sono resa conto di quanto, in occidente, l’amicizia sia difficile da vivere proprio perché confusa con un sentimento: è vero, può essere anche considerata come tale, nel momento in cui si prova dell’affetto verso qualcun altro, ma ritengo più efficace considerarla un percorso che due o più persone compiono insieme. L’amicizia è sì un sentimento, ma si concretizza fondandosi su disinteresse, reciprocità, condivisione, accettazione dell’altro, rispetto per il suo bagaglio culturale e sociale. Sicuramente sono tutti aspetti che ho incontrato anche in occidente, ma con le persone di Capo Verde, l’impatto e il cammino è stato diverso, forse anche per una questione di tempo a disposizione, o semplicemente per una questione di priorità di interessi. In Italia, infatti, sembra si debba essere sempre troppo impegnati e di fretta, per poter dedicare del tempo alle persone che ci vivono accanto e si rischia così di trascurare le relazioni umane, con tutta la loro ricchezza; a Capo Verde questo non accade e non soltanto per via dei ritmi di vita più rallentati, perché se il tempo o la situazione non è favorevole, la si modifica o la si crea. E così è stato per me con le insegnanti degli asili: un po’ per la curiosità reciproca di conoscere le differenze culturali e sociali che ci separavano, un po’ per la sincera volontà di approfondire un rapporto che non fosse esclusivamente scolastico, ci ritagliavamo dei momenti durante la giornata, grazie ai quali abbiamo condiviso insieme un tratto di cammino personale. Situazioni fino a quel momento ritenute quotidiane e abitudinarie, quali un pezzo di strada fatto insieme ai bambini prima o dopo la scuola, sono diventate ben presto attimi della giornata attesi e desiderati. Chiaramente non sono stati atteggiamenti improvvisati e soprattutto non è stato possibile creare lo stesso tipo di legame con tutte, in quanto con alcune insegnanti ho avuto occasione di passare più tempo o di frequentarle più a lungo. Grazie a loro, oltre a ripensare al mio concetto di amicizia, ho anche ottenuto delle informazioni interessanti; per esempio ho potuto appurare che, per quanto riguarda la struttura dei vari livelli d’istruzione, non c’è poi molta differenza con i paesi del resto del mondo; anche in Capo Verde, sono presenti due livelli di istruzione, oltre alla scuola materna: l’insegnamento di base, che dura sei anni e prevede una formazione generale, e l’insegnamento secondario (o liceo), anch’esso della durata di sei anni, che fornisce basi scientifiche, tecnologiche e culturali più specifiche in vista dell’inserimento nel mercato del lavoro. Sarebbe stato sicuramente interessante e altrettanto stimolante poter frequentare anche l’ambiente legato a questi due livelli di scuola (a cui seguono, per chi ne ha le possibilità economiche, corsi universitari e di specializzazione), ma avendo pochi mesi a disposizione, per ragioni di tempo, mi sono ritrovata a fare una scelta. Il mio primo approccio con la realtà capoverdiana è stato dunque mediato essenzialmente dai suoi abitanti più giovani: i bambini, che con la loro naturale spontaneità, allegria, spensieratezza, hanno fatto sì che conoscessi la loro terra da un’altra prospettiva. Così ho cercato di lasciare da parte per un attimo il mondo ‘dei grandi’ e ho cercato di concentrarmi sui bambini e sul loro modo di affrontare la vita quotidiana e mi sono accorta che, sebbene forse esista in tutto il mondo una sorta di “società dei bambini”, a Capo Verde risulta molto più marcata. “La cosa che più mi ha colpito” afferma Ester Facciotto, dirigente della Scuola d’infanzia e membro della redazione della rivista Iniziare. Significati e percorsi del bambino e della scuola materna, che più volte è stata a Capo Verde per curare la formazione didattica delle insegnanti, “è stata la quantità di bambini, che sono tantissimi e mi è venuto da pensare che forse ciò dipende dal fatto che, pur nella povertà della vita e nell’assenza di prospettive di sviluppo, essi siano una ricchezza”. E’ vero, i bambini sono tanti e a volte sembra sbuchino da ogni dove, per poi sparire rapidamente in mezzo agli arbusti o dietro ad un muro: non è raro infatti incontrare bambini a frotte, in strada, ad ogni ora del giorno e della sera, intenti a giocare con tutto ciò che capita sotto mano. Inoltre la linea di demarcazione con il mondo degli adulti, mi è da subito parsa molto netta, in quanto il mondo degli adulti è fatto di lavoro e fatica quotidiana, mentre i bambini ‘vengono lasciati in pace’, liberi di affrontare le normali difficoltà legate alla propria crescita. Tutto questo mi ha fatto riflettere molto perché in Italia, molto raramente accade che i bambini vengano lasciati soli e liberi di “arrangiarsi”; la loro vita è spesso organizzata in attività sportive o esercizi ludici già preparati e solo da eseguire, ai quali i bambini vengono rigorosamente accompagnati per paura di pericoli che a Capo Verde non esistono o esistono in misura molto minore (traffico stradale, malavita o delinquenza). Un giorno del mese di gennaio, arrivò nell’isola di Fogo un gruppo di turisti italiani, e P. Ottavio Fasano mi chiese se, vista la mia ormai acquisita conoscenza della lingua e dell’ambiente della scuola materna, potevo accompagnarli a ‘visitare’ gli asili; accettai con piacere, anche se rimasi titubante visto il numero di persone (una quindicina), che sapevo avrebbe creato un po’ di imbarazzo nei bambini, oltre allo stupore. Questa fu la prima volta in cui mi sentii ‘più capoverdiana che italiana’; da parte degli italiani era tutto un passare da un bambino all’altro, scegliendo quelli più puliti e sorridenti per poter scattare fotografie in una posizione o in un’altra. Ricordo l’amarezza con la quale tornai a casa quella sera, con in testa mille domande; mi sentivo infastidita a ricordare le frasi sentite nel pomeriggio di italiani che parlavano di bambini “tanto carini”. Mi chiedevo se avessero mai visitato un asilo in Italia e se non ritenessero che i nostri bambini fossero altrettanto belli, anzi, che avessero perfino ‘qualcosa in più’ perché più puliti, curati, profumati e ben vestiti, invece che avere le ciabatte infradito ai piedi, il grembiulino al posto del vestito, e ferite aperte a causa di cadute accidentali sulle quali si posano continuamente mosche fastidiose. Tutto questo mi ha fatto riflettere e se in un primo tempo non ho potuto fare a meno di formulare delle critiche per questi atteggiamenti che mi sembravano quasi umilianti, in un secondo momento mi sono chiesta perché io, italiana come loro, riuscissi a vedere le cose sotto un’altra ottica. Che cosa li aveva stupiti così tanto? Il fatto che avessero un altro colore della pelle o che fossero sporchi, ma sorridenti? Credo che la loro meraviglia fosse legata allo stereotipo dei bambini a cui i mass media hanno abituato la società occidentale: l’immagine presentata nei documentari dei ‘negretti’ poveri, senza scarpe, né vestiti, ha sempre inevitabilmente fatto centro. E’ anche vero che a Capo Verde le frotte di bambini presenti in ogni dove non passano inosservate, mentre in Italia è più facile incontrarli a piccoli gruppetti, magari mimetizzati tra gli adulti. Tuttavia ho notato come questo sentimento di fastidio fosse solo ed esclusivamente mio; infatti i bambini erano contenti di farsi fotografare e sono riusciti a trasformare in gioco anche una situazione così insolita: chi si faceva pettinare per apparire più bello o chi si andava a lavare il viso e le mani per essere pulito ed avere quindi più possibilità di essere ‘scelto’ per la fotografia. Il fatto poi che le macchine fotografiche fossero digitali, permetteva loro di vedere immediatamente la resa della propria immagine e questo diventò ben presto motivo di spassose risate, visto che raramente hanno occasione di potersi “ammirare”. E quello che stavo vivendo come un irritante disagio, in fondo non era altro che la mia incapacità ad accettare che quel gruppo di turisti italiani (così come tanti altri), potesse considerare i bambini quasi un aspetto del paesaggio esotico, protagonisti di ‘una bella fotografia’ da mostrare ad amici e parenti al ritorno dalle vacanze. Per me quei bambini, in poco tempo, sono diventati molto di più che una fotografia: Yaniki, Claudia, Joao, Miranda, Jailson, Erika, Adilson,… non sono soltanto nomi, ma persone: ad ogni volto è legata una personalità, con limiti e capacità, con un bagaglio personale fatto di fatica, sofferenza, ma anche gioia ed entusiasmo. Significativo e personalmente condiviso, a questo riguardo, il pensiero di Rosi Rioli, pedagogista e co – direttore della rivista Iniziare. Significati e percorsi del bambino e della scuola materna, secondo la quale “una cultura diversa va osservata e vissuta quale essa è, con la tensione a chiedere per capire i significati reali che le persone attribuiscono al loro vivere. Solo così si può, ad un certo punto, scoprire che la persona è persona e che l’educazione può essere possibile, difficile o impossibile allo stesso modo nel primo o nel terzo mondo”7 . Cercando di porre l’accento sulla trasformazione del mio ‘sguardo’ e del mio ‘ascolto’8 , ho cercato ogni giorno di più, di estraniarmi dalle mie presunte sicurezze quotidiane per lasciare spazio alla diversità e costruirmi così un’identità differente, benché sia ancora tutt’oggi difficile in quanto “le forme esteriori non sono una sorta di abito che ci si toglie per riporlo quando è passato di moda, o scambiarlo con qualcosa di più attuale”9. La lingua è stato uno degli aspetti della realtà capoverdiana con il quale ho faticato maggiormente: così abituata ad essere non solo ascoltata, ma anche compresa senza dover ripetere, mi sono ritrovata in difficoltà quando, non solo non venivo capita, ma ero io a non intendere né parole, né significati. Nonostante abbia sempre pensato che il dialogo sia una forma privilegiata attraverso la quale è possibile creare qualsiasi tipo di relazione umana, anche con un bambino piccolo, durante l’esperienza vissuta, mi sono dovuta ricredere almeno in parte, in quanto la conversazione, fino ad allora facile mezzo di comunicazione, con i bambini mi risultava al contrario complicata, difficoltosa e per nulla immediata. Infatti la maggior parte di loro parla esclusivamente il dialetto creolo e all’inizio, pur sforzandomi, non riuscivo a decifrare le loro brevi affermazioni o richieste e non volevo esprimermi a gesti o far sempre capo ad un’insegnante che mi facesse da interprete, anche perché molto spesso la traduzione non era un’interpretazione personale alle mie parole, senza badare al vero significato dei miei discorsi con i bambini. Ho pensato così di cercare un altro mezzo per “rompere il ghiaccio” e ho pensato che questo potesse essere il gioco. Ed è proprio con un gioco di accoglienza che si iniziano ogni giorno le attività di ciascun asilo: poiché i bambini giungono quasi tutti a piedi e alcuni devono percorrere tratti di strada anche piuttosto lunghi, coloro che per primi arrivano, guidati dalle maestre, cominciano a giocare. Questo prevede giochi strutturati di gruppo (girotondi, filastrocche, scalpo, il gioco del gatto e del topo), nei quali, in più occasioni, ho notato con quanta attenzione ciascun bambino fosse non soltanto concentrato per capirne le modalità, ma soprattutto intento a fare in modo di riuscire a distinguersi per guadagnarsi l’approvazione di compagni, insegnanti e anche la mia, quasi io fossi un ‘giudice’ esterno, che giungeva ogni tanto per scrutarli e metterli alla prova. All’inizio non mi rendevo conto di quanto la mia presenza fosse importante per loro: ogni volta sembrava quasi una gara, il cui ‘premio finale’ non era nulla di concreto, anzi, diventava per me momento di responsabilità: osservando anche soltanto il mio sguardo, infatti, cercavano di intuire il mio compiacimento per la loro ‘vittoria', o la mia eventuale ‘delusione’ nel vedere qualcuno perdere. Il cosiddetto ‘momento della ricreazione’ è invece diviso in due tempi (prima e dopo i pasti) nei quali le maestre sono occupate a preparare i tavoli per il pranzo (che sono gli stessi utilizzati come banchi) o lavare le stoviglie dopo. In questi momenti i bambini vengono lasciati ‘soli’, controllati ‘a vista’, ma liberi di correre e giocare per conto loro e mi sembrava quasi strano e a volte perfino preoccupante vedere con quanta abilità e destrezza si cimentassero in acrobazie, capriole, salti, spintoni e sgambetti, giravolte, esercizi di destrezza e di equilibrio sulle mani: giochi autorganizzati con i quali esprimevano tutta la loro energia. Non avevano paura di cadere e farsi male e quando accadeva, dopo aver verificato la gravità di eventuali ferite, seppur con qualche lacrima agli occhi, riprendevano imperterriti le loro imprese, per potersi migliorare, per potersi divertire ancora, ma anche per un inconscio “piacere del movimento per il movimento”10. “Per giocare è necessario, anzi indispensabile, dimenticare la testa e usare soltanto il cuore. Non dobbiamo cercare di capire, né di interpretare, ma solo giocare e basta”11. Così, quelli dell’accoglienza e ancor più della ricreazione, sono diventati i due momenti da me vissuti con più intensità e anche con più attenzione; proprio grazie ad essi ho avuto la fortuna di conoscere i bambini uno ad uno e scoprire poco alla volta un po’ del loro mondo, fatto di famiglia, gioco e natura, sforzandomi sempre di vivere le situazioni guardandole dal loro punto di vista: tutto ridimensionato insomma! Infatti, prima ancora di comprendere le ragioni di ciò che diciamo o facciamo, il bambino dà un significato al nostro modo di sorridere, guardare, muoverci12. E mentre con i più piccoli era abbastanza semplice una comunicazione fatta di strette di mano, abbracci o carezze, con i bambini più grandi e con quelli più estroversi erano l’ascolto e la mia attenzione nei confronti delle loro “imprese” le condizioni che implicitamente mi venivano richieste: cercare di farmi apprendere una canzone, i gesti di una filastrocca o un semplice esercizio con la palla e alcune sedie diventava per loro una vera e propria competizione. Le insegnanti mi hanno sempre presentata ai loro allievi come una collega, giunta in Capo Verde per collaborare con loro, ma i bambini sapevano che non ero una maestra vera e propria e, ho ben presto capito che, secondo il loro modo di pensare, non avevo doveri e responsabilità nei loro confronti. Ero sì una persona adulta, ma con loro potevo permettermi di comportarmi come un bambino: giocavo esattamente secondo le regole da loro decise e condivise, non mi facevo grossi problemi (per esempio a sedermi per terra o fare qualche capriola) e cercavo di svolgere qualsiasi attività, benché nel rispetto delle regole, manifestando un entusiasmo che facesse loro sentire un sincero coinvolgimento e la mia curiosità per le novità proposte. Così, con il passare dei giorni, il loro rapporto verso di me si trasformava sempre più da curiosità a occasione per dimostrare le loro qualità e diversificarsi dal resto del gruppo; un qualsiasi bambino, di fronte ad una novità, è impaziente, quasi euforico e io rappresentavo per loro questa novità, un’occasione per uscire dalla loro quotidianità, un ‘mezzo’ attraverso il quale sapevano di poter esaudire piccoli capricci o desideri che, senza la mia figura a fare da ‘scusante’ più che da tramite, sarebbero sicuramente rimasti inespressi. “I bambini giocano perché questo è il loro ‘bisogno vitale’, la via attraverso la quale divengono padroni di se stessi, dei loro movimenti, del loro corpo e della realtà che li circonda”13. “L’attività ludica è per il bambino conquista di libertà, fonte di conoscenza, motivo di crescita sociale e morale”14. Mi sono chiesta più volte, al termine delle mie giornate passate insieme ai bambini, quanto fosse vera, in Italia e quanto contasse ancora, la funzione educativa del gioco in sé, come strumento di sviluppo psicosociale del bambino stesso,“come capitale psichico di cui l’infanzia ha bisogno per affacciarsi alla vita”15. Fin dall’inizio mi sono chiesta come facessero i bambini a giocare e divertirsi con così pochi giocattoli, per di più spesso rotti o sciupati; ma quando ho provato a dire ad alcune insegnanti che avevo dei dubbi riguardo al fatto che i giocattoli sporchi o sciupati potessero essere educativi, in risposta hanno affermato che faticano a buttare via quelli che possiedono, non tanto per paura di non riuscire a riceverne altri più nuovi (in questo le missioni italiane hanno sempre provveduto, seppur sotto specifica richiesta), ma semplicemente per abitudine e per personale attaccamento alle cose. Pensando alla gran quantità di giochi che riempiono la mia soffitta, senza parlare poi di quelli che si possono trovare nei nostri asili o nelle camerette dei bambini della società occidentale ho più volte avvertito un forte senso di disagio e di ingiustizia per questo mondo che mi appariva ogni giorno sempre più disuguale e socialmente disequilibrato. Ma sebbene vivessi con nel cuore questo sentimento di inadeguatezza, incontravo sempre bambini che con quel loro modo così semplice e naturale di vivere la giornata, mi facevano pensare che, in fondo, ci fossero davvero ragioni più serie per cui valesse la pena di rattristarsi. Il clima caldo dodici mesi all’anno favorisce certamente la loro vita all’aperto, a contatto diretto con la natura che diventa quindi una miniera inesauribile di occasioni di scoperta e di esperienza non solo ludica, ma non credo sia solo una questione di ambiente fisico; penso più che altro sia una questione di abitudini, stili di vita e diversità di stimoli e proposte che tutta la società offre ai suoi figli più giovani. Nei paesi occidentali, “i giochi dei bambini stanno cambiando e si adattano sempre più ai nuovi stili di vita. Riducendo lo spazio disponibile, sta anche diminuendo, se non proprio scomparendo, la possibilità di correre, saltare, inseguire, creare piccole bande organizzate in giochi di gruppo. Da sociale il gioco diventa sempre più solitario. I giocattoli ‘intelligenti’ da usare dentro casa, i telefonini, i computer e altri possono sicuramente potenziare alcuni aspetti delle abilità cognitive, ma non favoriscono la motricità e il gioco sociale, che hanno un ruolo di grande importanza sia per l’adattamento al proprio ambiente di vita, sia per lo sviluppo dell’intelligenza”16. Non che i bambini occidentali non facciano uso della propria corporeità, ma tendono a sviluppare le loro abilità fisiche soprattutto attraverso le attività sportive: presi da mille impegni, sono sottoposti ad esercizi mirati di potenziamento per sviluppare capacità ben precise, così accade che i loro movimenti non riescano più ad essere spontanei, ma imposti per volontà di allenatori e preparatori atletici che spesso dimenticano che il corpo è esso stesso espressione ludica e che, attraverso semplici e naturali esercizi di bilanciamento e resistenza, coordinamento ed equilibrio, i bambini possono diventare ugualmente abili e forti. Già la pedagogista Maria Montessori, affermava che attraverso il proprio corpo, il bambino impara a muoversi, anziché a stare fermo, è contento di agire, conoscere, esplorare17 e a Capo Verde, come in Italia ho potuto constatare la veridicità di questa affermazione. Grazie anche all’ambiente, più naturale e libero da gravi pericoli, i bambini capoverdiani sono spesso lasciati soli, liberi di sperimentare giochi ed attività che li rendano consapevoli dei propri limiti e soprattutto che permettano loro di capire che crescere significa anche diventare sempre più autonomi, capaci, sicuri di sé e responsabili. Così, una semplice passeggiata lungo la strada o nei campi, si trasforma per Francisco, Joao, Sarah, Leisie e altri amichetti, in un gioco divertente: una sorta di percorso, fatto di salti, corsa, capriole,... che seppur inconsciamente, contribuiscono a far crescere in loro il senso di indipendenza, impegno, volontà, ma anche affidabilità e autocontrollo. Al contrario, gran parte dei bambini che vivono nelle nostre città o anche solo in piccoli paesi, sono costretti a condurre una vita sedentaria, chiusi in casa a giocare da soli o al computer; spesso tutto il loro tempo è organizzato alla perfezione, quando si ritrovano ad avere qualche ora libera, capita spesso che si annoino e trovino come unica alternativa la televisione. Questa forse è la grande differenza che ho potuto notare tra bambini capoverdiani e italiani: i primi vivono la loro giornata organizzata in base al tempo libero, i secondi, il tempo libero se lo devono ritagliare tra mille impegni, a volte imposti, più che scelti. Molti bambini capoverdiani il computer non sanno nemmeno cosa sia e conoscono a malapena la televisione, che non guardano quasi mai, non solo perché non ci sono programmi interessanti dedicati alla loro età, ma perché non sentono la necessità di farlo e preferiscono passare il tempo all’aria aperta, per la strada o nei campi. Come ho già accennato in precedenza, a Capo Verde in quasi tutte le isole ad eccezione delle più affollate (Santiago, Sal, Sao Vicente), non esistono grandi pericoli e le automobili sono ancora relativamente poche. I bambini conoscono e rispettano le regole richieste o imposte dagli adulti e, quasi fosse stipulato tra loro una sorta di ‘patto’, sanno che, pur conoscendo alla perfezione il territorio nel quale vivono, non devono allontanarsi e soprattutto devono prestare attenzione a non cadere in qualche dirupo, altrimenti potrebbero incorrere in severe punizioni, oltre che procurarsi gravi ferite. La maggior parte di loro gioca per strada o in mezzo alla campagna dal momento dell’uscita da scuola, fino a che si fa buio; spesso ho incontrato lungo i sentieri gruppetti di bambini intenti a cercare rametti, foglie, radici o anche copertoni di ruote o pezzi di metallo ormai inutilizzati dagli adulti, per poi impiegarli in costruzioni o esperimenti vari. Un’altra condizione richiesta dagli adulti in cambio della gestione personale del tempo libero, è la responsabilità dei bambini più piccoli da parte dei più grandi, fratelli, sorelle, vicini di casa o amici che siano; ma mi sono presto accorta che la maggior parte delle volte non erano nemmeno necessarie tali raccomandazioni, in quanto era un atteggiamento vissuto con naturalezza e con grande responsabilità: far sì che i più piccoli imparassero presto a sbrigarsela da soli ed essere indipendenti e autonomi, diventava per loro occasione di distinzione al fine di ottenere il riconoscimento di una posizione autorevole nel processo di crescita dei più piccoli. Posso dire dunque di aver constatato di persona quanto sia importante l’ambiente di crescita: nonostante la mia convinzione che tutti i bambini del mondo siano dotati di creatività, inventiva, desiderio di scoperta, penso anche che queste vengano sviluppate a livelli diversi a seconda degli stimoli e degli imput che si ha la fortuna di percepire dal mondo esterno. Nell’ambito della mia collaborazione con gli asili dell’isola di Fogo, ricordo con particolare emozione la festa di Natale 2003, che mi ha vista coinvolta in prima persona e che, vissuta con personale intensità, è stata ulteriore opportunità di conoscenza e condivisione con insegnanti e bambini. In particolare è stata un’occasione che mi ha fatto sperimentare e comprendere il senso di gratitudine che questo popolo possiede. Negli anni precedenti, alcune volte le maestre erano riuscite ad organizzare una festa di Natale, coinvolgendo tutti gli asili, altre volte invece, ogni asilo aveva provveduto a festeggiare l’evento per conto proprio. Così, presa dall’entusiasmo, fin dai primi giorni del mese di dicembre ho convinto, senza troppa fatica, le maestre ad organizzare una festa che coinvolgesse tutti i bambini di tutti gli asili, insieme. Dopo un’assemblea generale nella quale si chiedeva il permesso ai genitori dei bambini e la loro disponibilità a provvedere al trasporto dei propri figli, con le insegnanti abbiamo diviso un po’ i compiti: alcuni asili avrebbero pensato agli addobbi, mentre gli altri si sarebbero occupati di cibo e bevande (che io avrei comprato con largo anticipo). Insieme, decidemmo che ogni bambino avrebbe realizzato, durante l’attività didattica, un copricapo colorato come segno distintivo dell’asilo di appartenenza (ogni asilo un colore diverso) e avrebbe preparato una scenetta, la recita di alcune poesie o canzoni, per il giorno della festa, in una sorta di concorso a premi: in palio c’erano degli orologi a muro per le aule, più grandi per i primi tre classificati e più piccoli per gli altri. Così, riuniti tutti nell’asilo più spazioso, dopo un’accoglienza fatta di giochi, canti e danze, è presto giunta l’ora del pranzo: il momento più faticoso. Infatti, sebbene il pasto fosse composto soltanto da un piatto di riso, dei pop corn, una fetta di torta e un bicchiere di succo di frutta, la distribuzione è risultata abbastanza caotica, visti i quasi 450 partecipanti. Ma la gioia più grande è stata vedere con quanta sorpresa i bambini, ammutoliti, hanno accolto l’arrivo di un enorme sacco pieno di doni: un’automobilina per i maschi e una bambola per le bambine, impacchettati con cura dalle maestre. Benché non mi fosse comunque chiaro se il loro stupore fosse per l’emozione creata dalla ‘sorpresa’ in sé o per il dono ricevuto, non ricordo di aver mai visto prima tanto entusiasmo, meraviglia e gioia negli occhi di un bambino: pur essendo stanchi e accaldati esibivano questi doni come trofei e non vedevano l’ora di tornare a casa per far vedere alla famiglia quello che, per molti, sarebbe forse stato l’unico regalo ricevuto per Natale. In quel momento ricordo di essermi fermata a pensare a casa e alla mia tradizione di ‘tipica famiglia italiana’, nella quale, fin dai primi giorni di dicembre, si inizia ‘la corsa ai regali di Natale’. Di certo non posso e non voglio rinnegare la mia storia e la mia cultura, ma non posso negare di aver provato un profondo senso di inadeguatezza e inutilità, contrastate però da una sensazione di pace e serenità per riuscire a vivere davvero, per la prima volta, la sensazione di trovarsi ‘nel posto giusto, al momento giusto’. In più, nei giorni seguenti, ho incontrato per strada dei genitori dei bambini, che mi rivolgevano elogi ed espressioni di profonda gratitudine, oltre che per la festa, per aver fatto loro un dono, segno che a ‘noi’ maestre (perché tale sono sempre stata considerata), non interessava soltanto compiere il proprio dovere in quanto lavoro, ma svolgevamo i nostri compiti mettendo i bambini al centro della nostra azione educativa. Mi è successo più di una volta in passato, in Italia, sebbene con un numero molto inferiore di bambini, di organizzare feste di compleanno o per eventi particolari, quali la fine di una “Estate ragazzi”, ma non ricordo di aver ricevuto mai, da parte dei genitori, una gratitudine così sentita e profondamente sincera; non che io me la aspettassi o la pretendessi, visto che in qualsiasi caso sono attività che svolgo per mio piacere personale, ma non nego che è stato sicuramente motivo di grande soddisfazione.
“Lì dove un bambino sente di essere amato…
lì è la sua famiglia.” M. Bernardi UNO SGUARDO… ...IN FAMIGLIA La festa di Natale precedentemente descritta è stata, oltre che un momento molto positivo di condivisione con i bambini, anche un mezzo indiretto per arrivare a conoscere quello che personalmente ho sempre considerato il vero e proprio ‘fulcro’ al quale ogni persona, più o meno inconsciamente, fa riferimento, la sua fonte più autentica, dove affondano le radici della sua personalità e del suo essere uomo o donna: la famiglia. Nel corso dei secoli, il termine ha avuto molteplici e differenti accezioni, ad esempio è stato identificato come l’insieme di persone che condividevano spazi e luoghi comuni o con la più piccola forma di società. La sociologia ci dice che la famiglia è un’istituzione, la più antica ed importante tra tutte le istituzioni e che in tutte le società essa resta l’unità fondamentale; io però mi ritrovo maggiormente in una definizione della famiglia come nucleo sul quale ‘ricadono’ varie responsabilità e molteplici funzioni: non solo riproduttive e di socializzazione, ma soprattutto a livello di sviluppo psicologico, affettivo e sociale di una persona. La prima realtà con la quale il bambino entra immediatamente in contatto e contribuisce quindi in maniera significativa a definire la sua esperienza nel mondo è proprio la famiglia; per queste ragioni sono convinta che essa sia l’ambiente naturale necessario per la crescita e lo sviluppo dell’essere umano, in quanto ognuno impara ed apprende regole, norme, valori, ma soprattutto cresce emotivamente e personalmente, preparandosi ai ‘rischi’ a cui il mondo esterno sottopone ciascuno nel corso della propria esistenza. Tutte queste affermazioni maturate in me con il passare degli anni e attraverso il vissuto quotidiano delle mie esperienze personali, le ho potute ‘rimettere’ in gioco proprio attraverso la conoscenza diretta di un’altra civiltà, con differenti concezioni e stili di vita. Credo che l’idea di base della famiglia, quale luogo in cui ‘si gioca’ il destino dell’essere umano, struttura primaria in cui il bambino riceve i primi e determinanti stimoli che lo porteranno a costituirsi come persona, vivendo forti legami emotivi, interiorizzando norme e valori, anche attraverso l’apprendimento del linguaggio, non possa non variare a seconda delle società o delle culture18. Nonostante tutto, durante la mia permanenza in Capo Verde, ho avuto modo di sperimentare un modo un po’ diverso di concepire e soprattutto di vivere la famiglia. Personalmente faccio parte di un nucleo familiare che potrei definire ‘tradizionale’, composta da padre, madre e figli, tuttavia sono consapevole che nei paesi industrializzati del mondo sono palesemente in corso mutamenti strutturali della famiglia di grande portata: dal matrimonio alle convivenze, da un modello unico di famiglia ad una pluralità di forme familiari. Il mutare della struttura stessa della famiglia, attraverso, per esempio, l’aumento delle convivenze, delle separazioni e dei divorzi, la presenza di famiglie ricostituite, allargate o con un solo genitore, oppure anche di persone singole, porta inevitabilmente, a mio parere, ad un cambiamento di vita di ciascun individuo. Nel mondo occidentale, la ‘famiglia tradizionale’ è considerata come nucleo saldo di persone legate tra loro non solo da vincoli di sangue, ma soprattutto da amore disinteressato, fiducia, affetto, accettazione di sé e dell’altro, condivisione e attese; di conseguenza, c’è chi fa fatica a riconoscere come ‘famiglia’ tutti i legami che non rientrano in questi canoni, ad esempio genitori separati con figli, coppie non sposate con figli e anch’io, avendo avuto la fortuna di crescere in una famiglia unita, ero in parte condizionata da certi pregiudizi. Poi ho conosciuto Capo Verde e mi sono resa conto di quanto, per certi versi, la mia idea di famiglia fosse chiusa e stereotipata, ma anche di quanto, nel nostro mondo occidentale, la paura del giudizio altrui prevalga sulle più profonde ragioni che uniscono o a volte spezzano i legami tra le persone. Ricordo una lunga conversazione con G, giovane donna madre di due figli, la quale affermava che avrebbe tanto voluto avere la fortuna di vivere in Italia, dove “gli uomini sono più seri, ti sposano e ti amano per tutta la vita; puoi avere una bella casa, un lavoro, una tua indipendenza”. Ho pensato spesso a queste parole, cariche di delusione per una vita che forse ‘non sarebbe dovuta andare così’, ma sebbene provassi dispiacere e tristezza per la delusione di G. posso dire onestamente di non aver poi trovato così tanta differenza nel condurre, in Italia, la vita di coppia e famigliare. E’ vero a Capo Verde ho conosciuto tante donne la cui vita era ed è una gran fatica senza molte prospettive: dedite alla casa, ai tanti figli, al marito spesso infedele, al duro lavoro dei campi, con nel cuore un grande desiderio di miglioramento e la consapevolezza di non poterlo raggiungere facilmente; ho conosciuto giovani e ragazzi autoritari e poco responsabili, che considerano la donna solo un ‘oggetto’ di divertimento passeggero, con il rischio di figli indesiderati. Ma ho anche conosciuto ragazzi e ragazze seri, determinati, con nel cuore e nella mente il desiderio di una vita migliore, fatta di duro sacrificio e impegno quotidiano e non mi è sembrato che in fondo, ci fossero poi così tante differenze con la nostra società e il nostro modo di affrontare la vita. Certo è che in occidente la donna ha raggiunto ormai da tempo una posizione sociale piuttosto rilevante con una conseguente indipendenza economica che le permette, nel caso di separazioni e divorzi, di mantenere una casa ed i figli (sebbene con l’aiuto dell’ex marito), mentre, come già succedeva in Italia fino alla legalizzazione del divorzio (1 dicembre 1970), a Capo Verde, se anche la donna volesse andarsene di casa, raramente potrebbe permettersi di farlo, in quanto, economicamente dipendente dal proprio marito o compagno. “Uno spirito di sottomissione e rassegnazione concorre al sistema di educazione famigliare e sociale. L’autorità della famiglia appartiene al padre e i ragazzi vi restano sottomessi finché rimangono in casa. I comandi del padre non si discutono, ma vengono eseguiti”19. Così Garino definisce il rapporto genitori – figli nella società capoverdiana e benché sia un’affermazione per certi versi ancora in uso, penso anche però che possa e debba essere ridimensionata e resa meno ‘dura’; i termini di ‘sottomissione’ e ‘rassegnazione’, dovrebbero lasciare il posto ad “autorevolezza”, rispetto, confronto, dialogo e fiducia. Molte volte, tornando a casa a piedi dopo una mattina trascorsa in un asilo dell’isola di Fogo, vedevo frotte di bambini che correvano felici verso casa e la mia impressione era che pur non vivendo sempre in una condizione famigliare “regolare”, la casa intesa come luogo del ritorno, fosse molto più “vera” nella loro mente che non in quella dei nostri bambini, ma anche dei nostri ragazzi e adulti. Certamente situazioni simili si verificano nelle isole più tranquille, in cui il degrado non è ancora diffuso; tuttavia mi chiedevo se questi miei pensieri potessero nascere dal fatto che forse, molti capoverdiani riescono ad amare i loro figli in maniera più ‘diretta’ e soprattutto mi chiedevo perché avessi la sensazione che questi bambini provassero nel loro cuore un senso di appartenenza molto più profondo di quanto non riescano a vivere invece i ‘nostri’ bambini occidentali. E’ anche vero che a Capo Verde, il termine ‘famiglia’ in molti casi diventa quasi riduttivo, vista la quantità di persone presenti in una casa: accade spesso infatti che più nuclei famigliari vivano sotto lo stesso tetto e condividano gioie e dolori quotidiani. Vi sono poi casi in cui i bambini e i ragazzi vengono cresciuti da nonni o zii, poiché i genitori hanno avuto la possibilità di emigrare all’estero in cerca di lavoro, a volte addirittura sono i vicini di casa, sempre disponibili per ogni eventualità, che si sostituiscono ai genitori assenti. Durante i mesi di permanenza in terra africana, più volte ho avuto l’occasione di essere ospitata da alcune di queste ‘famiglie allargate’ e ho appreso e fatto sempre più mia l’idea che i legami d’affetto e d’amicizia che si creano tra le persone sono la cosa che più conta in assoluto. Benché all’inizio fossi piuttosto titubante sull’effettiva sincerità dell’accoglienza nei miei confronti, poiché temevo che potesse in qualche modo essere dettata da eventuali interessi in quanto io sono una ragazza bianca (e di conseguenza considerata “ricca”), mi sono dovuta ricredere, constatando di persona che, fatta qualche eccezione, ho creato legami profondi con le persone e il bene che mi dimostravano era profondo e sincero. Non importavano più il colore della pelle, le differenze economiche, sociali o culturali, ma soltanto il desiderio di conoscersi: accogliere l’altro nella sua diversità significava comunque arricchirsi. Per la prima volta ho vissuto la condivisione non soltanto a livello pratico e materiale, ma nel suo significato più profondo: attraverso il riconoscimento dell’altro come altro da me, ho cercato di vivere l’alterità partecipando al loro vivere, provando ad identificarmi nel loro vissuto e nelle ragioni che lo portavano a pensare o agire in un determinato modo, anziché in un altro, impegnandomi il più possibile per riuscire a vivere una “comune umanità”20. Ci sono però state occasioni in cui, nonostante i capoverdiani si dimostrassero un popolo accogliente, piacevole e ospitale, mi sono ritrovata in disaccordo su alcuni aspetti del loro modo di vivere e su alcune ‘regole’ di comportamento che ho trovato istintive e poco razionali, vissute per nascondere paure e preoccupazioni o per fuggire da eventuali impegni e responsabilità. “La donna è ancora ritenuta il classico giocattolo in mano all’uomo, che può usarlo quando, come e per quanto tempo vuole; può cambiarlo a piacimento, può dimenticarlo come se non l’avesse mai usato”21. Queste sono le dure parole con le quali p. Federico Cerrone, missionario in Capo Verde da oltre cinquanta anni e profondo conoscitore di questa umanità, stigmatizza le relazioni tra uomo e donna e il conseguente modo di impostare la convivenza famigliare. Queste parole mi sono apparse da subito molto forti e in cuor mio pensavo si potessero riferire a tempi ormai lontani; tuttavia poi, vivendo a stretto contatto con i capoverdiani, ho dovuto constatare con amarezza e anche un po’ di delusione, che purtroppo ancora oggi hanno la loro buona parte di verità e fotografano una realtà triste, una mala pianta con radici profonde, dure a morire. Anche a Capo Verde, come per altro un po’ dappertutto, ci sono donne il cui marito, pur restando con lei ed i figli, viveva storie parallele, senza preoccuparsi di nulla; per non parlare poi dei giovani, che dall’età di vent’anni alternano una ad un’altra ragazza a seconda dei periodi o addirittura dei giorni. Per me era e rimane una cosa assolutamente inconcepibile e più volte ho manifestato ad alcune ragazze non solo il mio disappunto, ma la mia incomprensione per la loro tolleranza e pazienza a sostenere situazioni del genere. Molte mi hanno risposto che anche loro sognano un marito che le ami, una casa, dei figli, ma che in Capo Verde è sempre stato così e l’uomo capoverdiano “è così”, quasi a giustificare atteggiamenti ‘innati’, come se condividere lo stesso uomo con altre donne fosse un atteggiamento inevitabile perché insito della loro storia e nella loro cultura, alla quale sembra impossibile ribellarsi. Ma se all’inizio mi ponevo mille domande su questa per me inaccettabile rassegnazione da parte delle donne capoverdiane, in un’affermazione di p. Cerrone ho trovato forse, una delle spiegazioni più plausibili al riguardo: “Colpa dell’uomo? In parte sì, ma in parte anche di chi ha cominciato a favorirlo. Si dice infatti, che nel 1620 un’ordinanza reale portoghese stabilì l’invio nell’arcipelago di ‘ragazze di costumi leggeri per impedire il commercio di uomini bianchi con le negre’. Impedire non voleva dire educare al rispetto e alla dignità, ma possibilità di cambiare giocattolo. Certe abitudini resistono al tempo. Nessuna meraviglia, perciò, se anche oggi la convivenza è il tipo di unione più diffuso nell’arcipelago, se l’uomo può avere tutte le amanti che vuole, se può tenersele perfino in casa, senza che la moglie o la famiglia protesti”22. D’altra parte però, sono anche convinta che ogni persona sia stata ‘equipaggiata’ di personalità e caratteri diversi che permettono ad ognuno di sostenere il proprio bagaglio culturale e sociale: atteggiamenti e condotte, talenti e disposizioni d’animo totalmente indipendenti da abitudini, tradizioni e cultura. Se non fosse così, non riuscirei davvero a spiegarmi come, nella generalizzazione degli stereotipi di “uomo dominatore” e “donna sottomessa e rassegnata”, abbia comunque conosciuto molti ragazzi e ragazze magari spaventati dal futuro che li aspetta, con paure e preoccupazioni, ma anche con tanta voglia di impegnarsi seriamente nei vari aspetti della loro vita: il lavoro, lo studio, ma soprattutto una relazione stabile con una persona con la quale creare una famiglia, in cui crescere dei figli, segno concreto del desiderio di un mondo futuro che, chissà, potrebbe essere migliore di quello attuale. I fattori che possono concorrere alla nascita e alla crescita di una famiglia sono davvero numerosi e interdipendenti e il ruolo della donna, soprattutto in occidente, ha assunto inevitabilmente un’importanza fondamentale: la sua emancipazione, il suo bisogno di autonomia individuale e di uguaglianza e il suo conseguente inserimento nel mondo del lavoro, l’hanno posta in una situazione di ‘parità’ rispetto all’uomo, il quale gradatamente sembra aver perso la sua posizione di ‘leader’ oltre che la possibilità di essere il primo a decidere di sciogliere rapporti divenuti con il tempo insostenibili e inadeguati. A Capo Verde ancora non si è giunti ad un’evoluzione così avanzata e, anche se in alcune isole (ad esempio Santiago, Sao Vicente, Sal), la donna ha iniziato da alcuni anni a farsi avanti soprattutto nel mondo del lavoro e ad assumere quindi una posizione sociale di maggior livello verso la conquista di una parità di diritti, non solo sociali, ma anche culturali ed economici, nelle isole più povere il suo compito è ancora legato alla cura dei numerosi figli, del marito e della casa, con scarse possibilità di miglioramenti. Sebbene quelle sopra citate siano isole relativamente più sviluppate rispetto alle altre, sotto diversi punti di vista, sono anche quelle in cui si possono riscontrare maggiori casi di difficoltà famigliari, con conseguenti difficili problematiche sociali, quali l’abbandono minorile e la delinquenza, l’alcolismo, la prostituzione. Ho potuto davvero ‘toccare con mano’ quanto, in certi casi, fosse complicato, per non dire quasi impossibile, per molte persone creare e ‘vivere’ una famiglia che fosse realmente il primo e più duraturo luogo di educazione, dove potessero essere insegnati e appresi comportamenti di collaborazione, competizione e accettazione23. “Tutto deve passare attraverso la famiglia; una persona, uomo o donna, madre o padre, che non possiede uno spazio dove vivere, non ha un lavoro o ne ha uno precario, non ha mezzi di sussistenza, ovviamente va a concentrare tutte le sue energie nella soddisfazione delle necessità di base e non pensa sicuramente ad una questione di valori”. Anche se non credo che tutto possa ‘passare’ attraverso la famiglia, mi pare che con queste parole, il signor Dionisio Pereira, direttore nazionale dei progetti S.O.S relativi al recupero dei bambini abbandonati, abbia descritto in modo significativo uno degli effetti della mancanza, in Capo Verde, di un’autentica ed efficace struttura famigliare. Pur sostenendo con grande determinazione, fiducia e ferma convinzione il proprio lavoro ed impegno in questi progetti, egli afferma anche che, attraverso quest’accoglienza, le strutture come le S.O.S danno sì un appoggio importante alla società, prendendosi cura dei cosiddetti ‘bambini di strada’, ma non risolvono il loro problema di fondo; occorrerebbe infatti andare alla radice, che è la famiglia: per questo il lavoro e la collaborazione con queste ultime diventa fondamentale ed essenziale. Dionisio Pereira aggiungeva anche che non si può parlare soltanto di povertà, di quali sono le priorità delle condizioni di vita della popolazione, perché diventa sempre più necessario rendere capaci le persone di risolvere i loro problemi quotidiani: gli adulti dovrebbero giungere al punto di non sentire più il bisogno di dipendere da strutture esterne di sostegno; in questo modo le persone sarebbero in grado di fare delle scelte, riuscendo a costruirsi una condizione di vita sociale più o meno stabile, con la consapevolezza che seguire un cammino anziché un altro può dare grandi soddisfazioni. Purtroppo però spesso si resta lontani da tali obiettivi e benché strutture come la S.O.S cerchino di fornire una sorta di ‘superamento’ delle difficoltà contingenti, l’unica strada considerata efficace è centrare l’attenzione sulle persone, sulla loro mentalità, per far crescere in loro l’orgoglio e la voglia di risolvere da soli i propri problemi, far leva sulle loro capacità, sulla volontà un po’ sopita, perché prendano coscienza dell’importanza di essere “attori” nella costruzione della loro storia futura. Attualmente in Capo Verde sono molti i progetti che si occupano di attività ‘con’ e ‘per’ i bambini, ma la struttura più grande e maggiormente conosciuta è proprio la sopra citata “Aldeia S.O.S”, organizzata in due comunità somiglianti a piccoli villaggi (“aldeia” significa appunto “villaggio”), situati in due zone diverse nell’isola di Santiago. Le sue finalità sono quelle di accogliere i bambini abbandonati, stabilire con loro dei contatti affettivi validi e profondi per aiutarli a crescere fino alla maggior età, cercando di offrire loro, almeno in parte, le cure che non hanno ricevuto da una famiglia ‘vera’. “Il dramma di queste S.O.S, però”, afferma Ana Paula Luguay, segretaria amministrativa della struttura, “è che il numero di bambini bisognosi di aiuto è molto superiore alle nostre possibilità di accoglienza. Inoltre, la mia esperienza personale, maturata in anni di lavoro, mi ha portata a pensare che, nella maggior parte dei casi, più che di vero e proprio abbandono fisico, si tratti di trascuratezza, di carenza di affetto e considerazione, dovuta non solo alla povertà, ma anche alla mancanza di istruzione e all’incapacità di assumersi responsabilità nei confronti della propria vita e di quella dei propri figli. Molti ragazzi, fin da piccoli, escono di casa la mattina e fanno ritorno soltanto la sera, passando le loro giornate in strada, visto che anche i genitori lavorano tutto il giorno, quindi rimarrebbero in ogni caso da soli e magari anche senza cibo. Organizzati in piccole ‘bande’, vengono iniziati dai ragazzi più grandi a furti o piccoli atti di vandalismo, originando, con il passare del tempo, atti di delinquenza sempre più difficili non solo da prevenire, ma soprattutto da controllare. Tutto questo perché non c’è un’attenzione diretta per loro, da parte di nessuno. Inoltre è facile che questi bambini vengano immediatamente ‘etichettati’ dalla società e di conseguenza l’abbandono diventa ancora più forte perché si trasforma in emarginazione, rifiuto e vera e propria esclusione, senza, apparentemente, nessuna possibilità di re – inserimento”. Ragionando su queste considerazioni mi veniva da pensare alla situazione dei bambini italiani e mi chiedevo quanto, anche nei nostri paesi, ma soprattutto nelle grandi città, questo problema diventi ogni giorno più grave. Anche senza approfondire le situazioni più degradate e desolanti, mi sono chiesta quanto, seppur sotto forme diverse, anche i nostri bambini si possano sentire ‘abbandonati’. Credo infatti che non sia sufficiente far parte di una famiglia ‘unita’, magari benestante e anche ben inserita a livello sociale perché un bambino si senta davvero amato e ‘accolto’ nel vero senso della parola. “La famiglia dev’essere percepita come una sorta di rete, di cui i singoli nodi sono necessari, ed ognuno di essi è fondamentale perché la rete non si smagli ma allo stesso tempo nessuno di essi è dotato di senso pieno senza gli altri”24. Mi chiedo allora, alla luce di quanto vissuto non solo a Capo Verde, ma anche nella mia terra, quanto sia difficile, indipendentemente da cultura e tradizioni, posizioni sociali ed economiche, abitudini e stili di vita, creare un ambiente ‘facilitante’ non più solo per i bambini, ma anche per gli adulti, costruendo legami fondati sull’accettazione e sull’empatia (prendersi cura del bambino in modo rispettoso, amoroso, valorizzante, comprensivo), ma anche sulla congruenza della relazione da parte dell’adulto (rimanere autentico, rispettando se stesso, amandosi e valorizzandosi in quanto persona con i suoi bisogni e valori, le sue percezioni ed emozioni25). Credo infatti che la differenza la facciano le persone, ognuna con il proprio bagaglio culturale e sociale, ma anche con la possibilità di sfruttare al meglio le proprie potenzialità, quali intelligenza, volontà e responsabilità, prima di tutto per se stessi e poi per gli altri. Incontrando e conoscendo, a volte in modo più superficiale, ma spesso in maniera personale e profonda, tante persone caratterizzate da ‘sfumature’ così diverse tra loro, si fa ogni giorno più forte in me la convinzione, che il “condividere con gli altri una comune umanità”26 , possa riguardare non solo un discorso generale legato alle differenze culturali, sociali, di razza, lingua o religione. “Nella relazione con l’altro, noi diventiamo consapevoli della differenza che ci separa da questi e siamo in grado di entrare in contatto intimo con la nostra identità”27. Occorre quindi, a mio parere, ‘fare ancora un passo indietro’: concentrarsi sulla persona, sulla sua centralità come soggetto in formazione e in costante ricerca di un’individualità che lo renda, fin dai primi anni di vita, propenso a fare della relazione interpersonale, l’unico terreno sul quale costruirsi una propria e caratteristica personalità.
“Lo straniero ti permette di essere te stesso,
facendo di te uno straniero”. E. Jabès L’EMIGRANTE Una delle caratteristiche che da subito mi ha colpito maggiormente di Capo Verde, è stato venire a conoscenza del fatto che è una terra che possiede più del doppio della propria popolazione all’estero, sparsa un po’ in tutte le parti del mondo (le mète principali sono l’America, il Portogallo, ma anche l’Italia, l’Olanda e gli altri paesi europei). Storicamente l’esodo migratorio è iniziato ancor prima dell’indipendenza (1975), per aumentare sempre più fino a diventare, ai giorni nostri, una vera e propria risorsa, se non addirittura la maggior entrata del paese; pur amando profondamente la propria terra, giovani e adulti capoverdiani sentono il peso di un’esistenza difficile, se non, in molti casi, quasi impossibile: con una vita sempre più disagiata, incerta, rischiosa, si fa sempre più insistente il desiderio di ‘evasione’28. “Le persone emigrano per lavorare” afferma Maria De Lourdes, giornalista ormai italo – capoverdiana, in Italia dal 1971. A spingere alla partenza non credo ci siano soltanto ragioni legate a problemi economici: il lavoro rappresenta non solo un guadagno, ma il conseguimento di propri obiettivi di ascesa sociale e la possibilità di una vita dignitosa per sé e per i propri cari. Poter emigrare costituisce per ogni capoverdiano la realizzazione di un sogno, una speranza che si coltiva quando non ce ne sono altre: l’America e i paesi occidentali ‘offrono tutto’ e rappresentano la voglia di libertà che si concretizza, consumi e guadagni facilmente accessibili, un lavoro dignitoso che permetta di dimostrare a se stessi, ma soprattutto a chi è rimasto, che una vita diversa è possibile. La curiosità, il forte desiderio e la speranza di riuscire, attraverso un cambiamento radicale di vita, a raggiungere una propria affermazione personale per sentirsi finalmente “qualcuno”, diventa così un evento molto personale nella vita di ogni ‘aspirante emigrante’, nonostante sia comunque una decisione vissuta e condivisa, solitamente, con tutto il resto della famiglia. Chiacchierando con gli anziani, mi sono spesso sentita dire che “in Capo Verde ormai, sono rimasti soltanto i bambini e i vecchi”: i primi, in attesa di emigrare, i secondi perché “troppo avanti negli anni per affrontare cambiamenti di vita così radicali”, o semplicemente perché, dopo aver già vissuto all’estero da emigranti ‘aprendo le porte’ alla generazione dei propri figli, hanno fatto ritorno nella loro terra d’origine. Dunque all’estero vivono soprattutto gli adulti e i giovani, i quali contribuiscono a tenere vivo in amici e parenti che ancora non hanno l’opportunità di partire, attraverso il confronto e la loro testimonianza concreta, il desiderio e la speranza di migliorare, non solo la propria posizione sociale, ma soprattutto la propria persona. Il numero maggiore di emigranti capoverdiani all’estero si registra in America e più precisamente nella città di Boston, dove, con il passare degli anni e l’aumento degli emigranti stessi, si è venuta a creare una vera e propria comunità di capoverdiani; anche in Italia, sparsi un po’ ovunque, ho scoperto che i capoverdiani sono davvero tanti e ho avuto la possibilità di incontrare e parlare con alcuni di loro, conoscendo così un’immagine ulteriore di Capo Verde. Tanti sono gli aspetti e le sfaccettature emerse da questi incontri: molti sono giunti nel nostro paese ancor prima dell’indipendenza e come testimonia la stessa Maria De Lourdes, ad emigrare per prime furono proprio le donne: “ Sono arrivata in Italia nel 1971, all’epoca della prima grande emigrazione della comunità capoverdiana. Già alla fine degli anni sessanta c’era un nucleo di donne che venivano a svolgere il lavoro domestico. Le prime arrivarono con l’intermediazione di un padre cappuccino che viveva nella nostra isola e che, di tanto in tanto, trovava ragazze di fiducia da mandare nelle famiglie italiane. E le ‘ragazze di fiducia’ erano quelle più vicine a lui, che frequentavano la chiesa e facevano parte del coro. Io non sono venuta direttamente attraverso il padre, perché ero ancora troppo piccola, ma ci è venuta mia sorella maggiore, che poi ha fatto venire me e io ho fatto arrivare le mie cugine e amiche: in qualche modo noi abbiamo così stabilito la catena emigratoria”29. La situazione, nonostante ‘la fortuna’ di essere riusciti a partire per raggiungere un paese straniero, considerato ‘migliore’ o perlomeno sicuramente più sviluppato sotto tanti punti di vista, all’inizio non è comunque stata facile da affrontare. “La migrazione è un vincolo umano tra i luoghi: il luogo di partenza ed il luogo di arrivo e di insediamento”30 ; “il senso di luogo e di identità personale dei migranti comporta spesso un dualismo, “qui e laggiù”, che forma un aspetto importante della loro vita”31. Nonostante un evidente miglioramento, non solo dal punto di vista economico, delle condizioni di vita, emerge in alcune conversazioni con gli italo – capoverdiani, una grande difficoltà di adattamento iniziale, che alcuni, sebbene dopo tanti anni, per certi aspetti sentono ancora presente. In primo luogo un disadattamento psicologico, che nasce dalla solitudine, dalla lontananza dei familiari e degli amici, dalle speranze a volte deluse e, nei primi anni dell’emigrazione, dall’insicurezza e paura per il proprio futuro e dal conseguente rischio costante del fallimento del proprio progetto. Emergono poi aspetti sociali e morali legati al disadattamento, nati dalle difficoltà di integrazione in un ambiente completamente nuovo e diverso dal proprio (economicamente, socialmente, culturalmente) e dalla estraneità del paese ospitante alle abitudini e regole di vita dei ‘nuovi arrivati’, atteggiamento che, in alcuni casi, ha purtroppo favorito emarginazione ed esclusione. Sebbene sia ormai passato quasi un ventennio dalla fine delle dominazioni portoghesi, le conseguenze del colonialismo lasciano ancora in certi casi, nel cuore dei capoverdiani, un senso di inferiorità ed inadeguatezza. Garino afferma che tutto ciò ha pesato come una cappa sull’animo del capoverdiano, inserito in un contesto sociale in cui una casta di privilegiati era abituata a considerare i capoverdiani come inferiori, portandoli a perdere la fiducia in se stessi e nelle proprie risorse umane: per questo sentono un grande bisogno di affermazione personale32. Pur condividendo la convinzione che il colonialismo non abbia affatto aiutato il capoverdiano a considerarsi persona degna e capace, libera e responsabile, mi viene da pensare che negli ultimi anni le cose siano cambiate in meglio e, vivendo a stretto contatto con loro, mi è sembrato che fortunatamente non sia rimasto nella mente e nel cuore dei capoverdiani nessun tipo di risentimento nei confronti del Portogallo, perché, come mi disse un giorno un anziano dell’isola di Fogo, “in fondo è grazie ai portoghesi che oggi siamo quelli che siamo; è difficile recidere il cordone ombelicale che ci lega a loro: la televisione, le banche, le importazioni.. tutto arriva di lì. Parte delle nostre famiglie vive in quel paese e i nostri giovani possono studiare e lavorare lì senza incappare nelle maglie delle leggi sull’immigrazione che attanaglia molti altri paesi come per esempio l’America”. E proprio l’America sembra essere uno dei paesi, insieme al Senegal, responsabili dell’introduzione in Capo Verde di un aspetto malsano, che, fino a pochi anni fa, l’arcipelago ancora non possedeva: la droga. Come afferma C. S., con cui ho conversato a lungo, che dal 1971 vive in Italia, a Verona e lavora come collaboratrice scolastica in un Istituto Tecnico industriale statale, ma che è costantemente attenta all’evoluzione del suo paese, grazie ai contatti con la famiglia, divisa tra Italia, Capo Verde e America, probabilmente questo disagio sociale sarebbe giunto in ogni caso. Capo Verde (in particolare l’isola di Sal), sta diventando sempre più ‘mèta turistica’, nella quale giungono popolazioni da tutto il mondo. In più, proprio in quell’isola, è sempre più massiccio il mercato dei giovani senegalesi, che emigrano in Capo Verde, incalzando, se non annullando, il piccolo mercato sociale. “Penso però che la vita sia dura per chiunque ed ovunque”, afferma ancora C. S., “e se non sei abbastanza forte e determinato, rischi di lasciarti trascinare dalla disperazione; per questo anche molti nostri giovani capoverdiani, quando giungono in un paese straniero, rimangono disorientati, sommersi da tutto ciò che loro stessi avevano sempre sognato e che si rivela ben più grande delle loro stesse aspettative”. Ma fortunatamente l’emigrazione porta anche immagini positive, una delle quali è identificata dalla giornalista già sopra citata Maria De Lourdes, con il ritorno a casa: la maggior parte degli emigrati solitamente non rientra in patria per sempre, ma torna, di tanto in tanto, per passare qualche giorno di vacanza, rivedere le persone care e sedare un po’ la nostalgia della vita semplice di casa. E in ogni ritorno temporaneo, la persona è solita portare fotografie e regali, che acquistano un valore non solo simbolico, come una sorta di “souvenir”, ma una vera e propria dimostrazione di ‘riscatto’, una conferma del ruolo sociale e culturale che ogni emigrante, seppur con fatica, è riuscito ad assumere nella nuova civiltà che lo ha accolto. La casa, il lavoro, gli impegni sociali e culturali ripagano le rinunce e i sacrifici, i rischi e le paure affrontati in tanti anni, per riuscire a dimostrare non solo i risultati ottenuti per ‘aver investito’ su se stesso, ma soprattutto la soddisfazione di essere l’artefice del miglioramento delle condizioni economiche e sociali della restante famiglia, la maggior parte delle volte, rimasta in patria. Un altro aspetto positivo dell’emigrazione, sempre secondo la giornalista sopra citata, è la nuova generazione, costituita dai giovani capoverdiani nati già in Italia e considerati la “seconda generazione”. Maria De Lourdes afferma con convinzione che questi giovani capoverdiani sono una grande risorsa per entrambi i paesi perché “sono stranieri, ma si sentono italiani”, hanno un passato fatto di tradizioni capoverdiane, ma un presente costituito da usi e costumi, cultura e stili di vita italiani, sono sia africani che europei. Secondo lei, mentre la sua generazione, quella dei primi emigranti, ha saputo aspettare nel conquistare il suo posto nella società, è riuscita a raggiungere posizioni sociali rilevanti attraverso un paziente e tollerante percorso di integrazione, i giovani italo – capoverdiani hanno in mano un grande potere di mediazione sociale e culturale: sono già nati in Italia, parlano perfettamente la lingua e i dialetti di questo paese, frequentando spazi e attività comuni, quali per esempio la scuola, i gruppi sportivi o i centri culturali, questi giovani possono attivare e creare le condizioni affinché avvenga sempre più un positivo confronto e scambio di frammenti di vita che portino alla nascita di una nuova civiltà, nella quale non esistono più differenze razziali e nella quale non si parli più di ‘adattamento’, ‘accoglienza’, ‘inserimento’, ma semplicemente di ‘interazione reciproca’. Questi giovani occupano una posizione diversa rispetto ai loro genitori: non devono più ‘competere’ perché sono allo stesso livello; allo stesso tempo, la famiglia di origine ha provveduto, negli anni, a mantenere vivo il ricordo di Capo Verde, attraverso il dialetto creolo, le tradizioni culinarie e quelle musicali, che possono così diventare mezzo attraverso il quale far conoscere un Capo Verde più autentico, lontano dalle etichette legate ai villaggi turistici. Ritengo importante e curioso dare spazio all’esperienza di un capoverdiano, Jorge Canifa Alves, giunto in Italia nel 1979, residente a Roma e laureando in Scienze Umanistiche – Letterature Africane di espressione portoghese, il quale parla della sua esperienza di emigrante come “percorso di mitigazione e lenta fusione di due realtà differenti. Un percorso dove si forma la nostra coscienza umana o meglio il nostro bagaglio culturale”33. Solitamente i ‘canali preferenziali’ attraverso i quali i capoverdiani sono riusciti a ritagliarsi un posto nelle nuove società ospitanti, sono state negli anni quelli musicali e gastronomici. Ma lo stesso Jorge sostiene che “chi viene da un paese lontano, con cultura differente da quella del paese ospitante, avverte anche l’esigenza di doversi portare dietro il fardello della propria cultura, per non dimenticare, per ricordare, per sentirsi più a casa, per sentire casa propria un po’ più vicina. Così ho avvertito con forza crescente la necessità di dover lasciare una testimonianza scritta della mia cultura di origine”. Egli distingue innanzitutto due generazioni di “scrittori migranti”. Alla prima, appartengono stranieri che conoscono poco la lingua italiana e la nostra cultura, ma si addentrano in racconti che diventano veri e propri ‘diari’ narranti il percorso che ha portato gli autori stessi dal paese di origine alla loro avventura italiana. C’è poi la seconda generazione di “scrittori migranti”, nella quale Jorge stesso si identifica, che è quella di coloro che sono nati, culturalmente parlando, in Italia. “Conoscendo il mio volto, ci si attendeva qualcosa di ‘esotico’, invece una scrittura in perfetto italiano in uno stile occidentale, faceva perdere al lettore l’equilibrio nella lettura. Secondo alcuni non esprimevo quello che ero veramente: un potenziale scrittore ‘straniero’, con un bagaglio ‘diverso’ da tutti i giovani scrittori italiani. Dovevo tirare fuori questa ‘diversità narrativa’! Ma credo che la diversità sia sinonimo di originalità ed è ciò che è originale che merita di essere letto perché provoca curiosità nel lettore. Credo anche che l’intercultura non sia una via a senso unico dove io imparo e tu taci, ma una strada ‘di porto’: io imparo da te qualcosa e ti insegno qualcos’altro e tu fai lo stesso con me.” Con il passare del tempo, gli “scrittori migranti” vanno oltre il semplice ‘diario’; non vogliono più sentirsi stranieri nella lingua, ma solo nell’anima e diventano scrittori, prima che emigranti, per testimoniare qualcosa della vita del loro paese, per non dimenticare o per ricordare a loro stessi qualcosa che a loro appartiene, ma è lontano chilometri34. Ecco che ritorna, seppur sotto forme diverse, la figura del giovane e, nel caso di Jorge Canifa, anche dello scrittore, come ‘mediatore culturale’, non più soltanto per integrarsi in una cultura e in una società straniera, ma come ricchezza di entrambi i popoli: nati in Italia, questi italo capoverdiani, possiedono non solo una profonda conoscenza della nostra società, ma anche un’altrettanto importante conoscenza del loro paese di origine. Detto questo, mi sembra quasi che i capoverdiani emigranti possano essere un po’ la raffigurazione concreta della morna, tipica melodia capoverdiana, triste e allegra allo stesso tempo: quasi volessero prendere le distanze dalla vita, non lasciarsi illudere, ma neanche trascinare a fondo, assumono una sorta di resistenza passiva come un modo per mantenere la speranza. Prendere le distanze dal mondo come formula segreta della propria estrema tenacia35.
“La cultura capoverdiana è una risultante di un viaggio
costante, trasmessa di generazione in generazione. E’ sempre un doppio viaggio, simbolico e reale, nel tempo e nello spazio, un ritorno al passato con il senso del futuro.” Guenny Pires RIFLESSIONI CONCLUSIVE Nell’introduzione e nella presentazione del lavoro, ho già accennato alle difficoltà incontrate nella stesura della tesi, difficoltà soprattutto pratiche, legate al reperimento di testi e alla loro traduzione, essendo in lingua portoghese o in dialetto creolo. Mi accorgo però che, al termine di questo percorso, tutti i momenti difficili sono passati in secondo piano, per lasciare spazio alla ricchezza che questa esperienza mi ha lasciato. Anche la scelta di volerla condividere, sebbene solo in parte, attraverso uno scritto, devo ammettere che non è stata semplice, ma sono contenta di averla fatta perché è stata per me un’occasione importante di crescita personale. La partenza per Capo Verde è stata un distacco non soltanto dal ‘mio’ mondo, dalla famiglia, dagli amici e dalle mie abitudini, ma soprattutto da me stessa. Mi sono resa conto di quanto avessi sempre sottovalutato l’importanza della relazione interpersonale e me ne sono accorta quando inaspettatamente è emersa in me la paura per l’altro, il ‘diverso’, lo ‘sconosciuto’. Le difficoltà date dal non capire le vere ragioni delle differenze e la sensazione di sentirsi inadeguati nell’affrontare la novità o perfino minacciati nella propria identità mi hanno fatto riflettere. Ma ho presto scoperto che esiste un modo molto semplice per sgomberare mente e cuore da tutte queste angosce: incontrare l’altro, conoscerlo da vicino, stabilire con lui un contatto, preparando insieme un ‘terreno fertile’ per far crescere un rapporto dinamico basato sulla reciprocità, facendo fruttare le diverse esperienze di vita. Attraverso l’approfondimento delle identità culturali e personali di ciascuno nel confronto dialogico con l’altro, le persone coinvolte vengono inevitabilmente provocate e riscoprono non solo la ricchezza dell’altro, ma anche le proprie radici. I bambini, con la loro spontaneità, ingenuità, curiosità, allegria e spensieratezza; le famiglie e i giovani, con la loro ospitalità mi hanno fatto riscoprire il significato e la bellezza dell’accoglienza. Gli emigranti in Italia, nonostante le difficoltà e la nostalgia, con la loro pazienza e tolleranza, hanno dimostrato di continuare ad essere una grande ricchezza per il loro paese e di avere aver raggiunto una posizione sociale e culturale degna di tenere alto il nome di Capo Verde nel resto del mondo. Tutte queste persone mi hanno aiutato, non solo a ricordare, ma ad interiorizzare ed assumere come valore il fatto che incontrarsi e conoscersi profondamente è fondamentale per superare generalizzazioni e stereotipi e per scoprire che dietro ogni straniero c’è un volto, una storia, un “prima” e un “ora”, una famiglia, dei legami affettivi, delle speranze, dei valori. Solo così le persone possono ‘riconoscersi’ e rispettarsi, creando relazioni interpersonali ed interculturali vere e profonde.
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